Su “The Boys” di Garth Ennis e Darick Robertson, ho deciso di non avere un parere.
O meglio, ho deciso di pensarci su, di rileggerlo un paio di volte e magari aspettare il ciclo di storie successive prima di formulare il mio giudizio definitivo.
In effetti sono perplesso. Non capisco se sono io che “pretendo” molto, forse troppo, dallo scrittore di Preacher e dal disegnatore di Transmetropolitan, oppure se è una questione di tempo che passa, acqua che scorre e c’è quel che c’è.
Una volta, un mio vicino di casa di dieci anni, aveva scoperto le parolacce. Ripeteva vaffanculo ossessivamente, a tutti.
Come stai? Vaffanculo! Voglio la merenda, vaffanculo!
Se non è tuo figlio che cosa fai?
Sorridi.
The Boys, per ora, mi ha fatto lo stesso effetto. Un bambino di dieci anni che ti manda affanculo.
Un dolcissimo, inquadratissimo, politicamente corretto nella sua scorrettezza, innocuo bimbo sboccato che va a scuola con la cartellina del Power Rangers. Deve ancora crescere parecchio prima che i suoi vaffanculo vengano presi sul serio, ed è molto distante dai messaggi contenuti in Preacher o in Transmetropolitan.
Ma ripeto, deve essere colpa mia. Non di The Boys. Per cui, sospendo il giudizio. Aspetto.
Ho avuto molta paura dopo aver letto la frase in quarta di copertina: “conta già varie opzioni per riduzioni cinematografiche”. Ho pensato a quello che hanno fatto con Wanted e un brivido mi è scivolato lungo la schiena.
Al tempo stesso sono molto, molto contento ed orgoglioso. Sono felice perché, in qualche modo, avevo ragione.
C’ero.
Ero sul pezzo.
Ero un po’ in anticipo, correva l’anno 2005, ma i calzini e le mutande di The Boys sono molto simili a quelli di Mambo Italiano.
Hanno lo stesso underwear, io lo sento, e se hai letto entrambi questi fumetti, secondo me te ne accorgi anche tu.