Fumetto, Scrittura, Workshop

Diegozillab: Fase uno: Scrivere. Supplemento 1

8 dicembre 2010 • By

Non è la lezione 3!
Quella arriva domani, questo è un supplemento, come i diari di bordo dell’Enterprise.
Essendo un extra non introduco nuovi argomenti, ma si chiacchiera su quanto si è detto e fatto fino ad oggi.
I compiti a casa andavano abbastanza bene. O meglio: bene. Dai, che sono di manica larga.
Avete colto tutti tutti le macro aree narrative. Pochi hanno evidenziato le ripetizioni di punti che avvengono spesso, anzi spessissimo, durante un racconto.
Siccome ho fatto casino, a qualcuno ho mandato un esempio, a qualcun altro no. Fatto sta che l’esempio c’è anche qui sul blog. Trovarlo è il compito bis.
Ho ancora una trentina di mail da leggere, state sereni, fa fede il timbro di yahoo.
(Perdonatemi per le mie risposte stringate, ma siete un botto!)
Per tutti quelli che non hanno ancora consegnato… Avete tempo fino a domani!

Torniamo al righello.
Sapevo che il righello avrebbe fatto dire a qualcuno:
- Ah! Sì, il viaggio dell’eroe.
(Lo dico senza esprimere un giudizio negativo su chi lo ha detto.)
Non ho nulla contro Christopher Vogler, anzi. Il suo libro è fighissimo. Forse troppo. Il problema è tutto qua.
Il Viaggio dell’eroe è così fighissimo che è diventato una sorta di luogo comune laddove si intraprende la tribolata avventura dell’insegnamento della scrittura creativa.
Qui una volta era tutta campagna, Venezia è umida, Bologna è una città vivibile, il viaggio dell’eroe.
E via con quaranta minuti di lezioncina improvvisata basata sull’indice del libro.
Personalmente preferisco Propp, che ha la sfiga suprema di scrivere malissimo le sue tesi, ma perlomeno non hanno ancora tirato fuori Morfologia della fiaba for dummies.
Fine della polemica.
Morale: diffida da chi cita a minchia Il Viaggio dell’eroe.
Vorrei spendere ancora qualche riga sul patto di complicità.
Io ti racconto una storia, e tu sei mio complice. Per tutta la durata della storia tu prendila per vera, appassionati, soffri assieme ai personaggi, sobbalza per i colpi di scena, piangi, ridi, tricchetracche.
Una storia di genere parte decisamente in svantaggio.
Sappilo. A volte non basta inserire la didascalia: tratto da una storia vera. A volte, quel patto non viene stipulato e non c’è niente da fare.
Però, c’è un però.
Semplificando al massimo, guarda una storia.
Che cosa noti?
Io noto il che cosa viene raccontato e il come viene raccontato.
Il che cosa è il mondo della verosimiglianza, della logica, della continuity, delle psicologie dei personaggi, del genere, di questo e di quell’altro.
Il come è il mondo degli aggettivi, della messa in scena, del montaggio, della voce, unica e personale di chi quella storia te la sta raccontando.
A livello inconscio, il come ha il suo peso. E anche se uno non lo sa, è con l’autore che sta stipulando il patto di complicità. Sono complice del modo che hai di raccontarmi la storia.
Ne consegue che non serve essere fan appassionati e devoti di un determinato autore, tutti lo siamo, anche se non lo avvertiamo in modo lucido.
Il come può fare davvero la differenza.
Ed è anche il motivo per cui le storie vengono raccontate, anche se sono già state raccontate tutte. Cacchio, cambia la voce di chi te le sta raccontando, e non è poco.
(Sul fatto che: le storie sono già state raccontate tutte, ne parleremo in futuro, ok?)
Quindi…
Storia bellissima, unica e originale raccontata con la stessa regia del Tenente Colombo?
Oppure storia banale, scopiazzata, inconcludente, ma raccontata con la regia de L’infernale Quinlan?
Quale delle due crea il patto di complicità migliore?
Se lo sapessi, sarei miliardario.
A occhio, posso dirti che sarebbe meglio pompare sulla messa in scena durante i passaggi banalotti, e semplificare quando si tirano le bombe narrative.
Ma ho già detto che qui non ci sono regole precise, giusto?
Altro favoloso paradosso, ad utilizzare al meglio il concetto di patto di complicità non è il cinema, non è la televisione, non è il fumetto, non è la letteratura, non sono i videogames, non sono i cartoni animati.
L’unica e la sola industria che utilizza a pieno la forza del patto di complicità è l’industria musicale.
Per dire, i Tokio Hotel sono un prodotto narrativo così perfetto, che se dici a una fan dei suddetti che sono soltanto la costruzione strategica dell’ufficio marketing della UMG ti uccide.
Il patto di complicità narrativa nell’industria musicale è così poderoso che alla fine credi sul serio che le canzoni vengano scritte (e suonate) da chi le sta cantando, che i vestiti e le acconciature siano frutto del gusto personale degli artisti, o che (teen dream) quello fico nella boy band sia etero.
E va oltre. Il patto fa il giro, si cortocircuita. Si rivolge verso gli artisti stessi, che ci credono. Guarda negli occhi Marco Carta, o Valerio Scanu, e capirai quanto può essere forte e duplice il patto di complicità narrativa.
Ti sto raccontando una storia.
Il veicolo con cui te la racconto è una “realtà” debordiana, rovesciata, dove il momento di vero è un momento di falso.
Falso, per noi, significa narrazione.
Chiudo questo supplemento in modo cospirazionista.
Prova a usare il righello su tutta la vicenda Wikileaks.
Rabbrividiamo insieme, dai!