Ufficio Postale Milano 65, raccomandata per l’inferno.

Capisco, osservando le dimensioni della busta, mentre un brivido corre lungo la mia schiena, che per spedire quel plico, purtroppo, non c’è scelta alcuna, e tremo mentre formulo lucidamente il pensiero, e ansimo mentre prevedo l’infausto futuro che mi attende, perché è cosa certa ormai che per inviare quella missiva, mi è inevitabile andare fisicamente alle Poste.
Superato questo incipit gotico, ci terrei a dire che nonostante le mie avventure precedenti all’ufficio postale  io non ho nulla contro le Poste di via Gozzoli.
Sono le Poste di via Gozzoli che ce l’hanno con me.
Ciò nonostante, confidando nella bontà del genere umano e pieno di ottimismo nei confronti degli uffici pubblici, agguanto la busta e vado in posta.
Varco la soglia lunedì 30 Aprile, pressappoco alle 11.20.
C’è parecchia gente, ma non mi lascio spaventare e prendo il mio numerino. Eccolo lì. Stampato per bene bianco su nero. Apprendo quindi un dato, una notizia certa, una verità incontrovertibile: davanti a me ci sono centoottantasette persone della mia categoria, la “A”. Impossibile sapere quanti siano quelli in coda delle altre categorie: “E”, “P”, “chilosà”.
Mi metto in disparte e cerco di farmi un’idea.
Chi sono queste persone?
Quanto tempo ci metteranno a fare quello che devono fare?
Con quale frequenza vengono evase le pratiche allo sportello?
Tiro fuori la calcolatrice e faccio dei conti. Arrotondo a duecento persone, ipotizzo un minuto a persona.
Fanno duecento minuti, tre ore e mezza di attesa.
Però un minuto allo sportello non basta mica, facciamo due. Irrealistico comunque, ma facciamo due minuti. Ottengo sei ore e mezza di attesa.
Mentre faccio i miei conti realizzo che sono passati quasi dieci minuti e la “situazione coda” è immutata rispetto a quando sono entrato.
Mi guardo attorno.
Ci sono due che giocano a briscola. Hanno portato lì un tavolo da campeggio e ci schiantano sopra delle Piacentine accompagnando il gesto con delle sonore bestemmie.
C’è un parrucchiere, che taglia i capelli e fa la messa in piega alle comari in attesa.
Un anziano dorme. Una donna sta pulendo dei piselli freschi. Ha due ciotole di plastica, in una sbacella, nell’altra fa cadere i piselli sbacellati.
Uno sta scrivendo la tesi. Un altro ne approfitta per farsi confessare dal prete che gli è seduto di fianco.
C’è uno che gira seminudo, con un asciugamano allacciato attorno alla vita e uno spazzolino da denti in mano.
Dei messicani stanno cucinando il mole poblano, usano un pentolone messo in un angolo, vicino alla vetrina. Nell’aria infatti c’è un buon odorino.
Uno fissa il tabellone elettronico con i numeri. Lo fissa così forte che ha un esperienza extra corporea e raggiunge Plutone in corpo astrale.
C’è un ragazzo si è fatto consegnare una pizza direttamente lì.
Mi rendo conto che sono circondato da dei veri professionisti dell’attesa alle Poste.
Attendere il loro turno è il loro lavoro.
Ma io ho altro da fare. Ho una vita. Ho altri impegni. Ho altre attività da svolgere, non dico che tutte le mie attività siano più importanti di stare sei ore in fila alle Poste, ma le ho. E non posso farci niente se le ho.
Non ho scelto di fare “quello che aspetta” come lavoro. Non so nemmeno dove ci si deve iscrivere per fare quello che attende come professione.
Dopo venti minuti, e centoottanta persone della categoria “A” davanti a me, decido di andarmene.
Ho un rigurgito di ottimismo. Mi dico: vabbè, magari se ci torno stasera ci sarà meno gente.
Passo il resto della mia giornata vivendo.
Facendo le mie cose. Non tutte le cose che ho fatto invece di stare tre ore in fila in posta erano cose importantissime. No. Ma dovevo comunque farle e le ho fatte.
Torno in posta lunedì 30, pressappoco alle 17.40.
Prendo il numero. Ci sono settantadue persone davanti a me.
Uno si sta mettendo il pigiama.
Una signora si sta abbronzando con una lampada facciale UVA. Dice che l’ha presa on line ed è comodissima.
Un anziano che dorme. Ma non è lo stesso di questa mattina.
Ci sono due poliziotti. Girano tra le file di sedie. Hanno ricevuto una denuncia per la scomparsa di una signora e la stanno cercando lì, prima di chiamare Chi L’ha visto.
Non mi serve fare dei conti per capire che le Poste chiuderanno prima che arrivi il mio turno.
Me ne vado alle 18, lasciando il campo ai professionisti dell’attesa.
Ho un nuovo conato di ottimismo e mi dico: forse, magari, chi lo sa, forse c’era tutta quella gente perché domani è un giorno festivo. Facciamo che torno il 2 Maggio, dai!
Oggi. Mercoledì 2 Maggio.
Varco la soglia delle Poste di via Gozzoli alle 9 del mattino.
Tengo lo sguardo basso, per non farmi terrorizzare dalla massa di persone in attesa.
Prendo il mio numerino. Novantadue persone davanti a me.
Sospiro.
Mi guardo attorno, di nuovo.
Oggi l’età media della gente in attesa è tra i 65 e i 110 anni. Data l’età media piuttosto avanzata, un tipo ha avuto una bella idea.
Ha organizzato un geronto speed date, dove le sciure possono incontrare i sciuri.
Si siedono l’uno accanto all’altra e chiacchierano per dieci minuti. Parlano dei nipoti, dei figli, del costo della vita, di come si stava meglio quando si stava peggio. Poi via, cambio. E le coppie si alternano. Il tutto accompagnato dalle melodie suonate dalla band: Loris e i Cellophane, ingaggiati apposta per l’occasione. Liscio, mazurca e canzoni popolari.
Capisco che quelle novantadue persone davanti a me sono preparate, addestrate, geneticamente predisposte per stare ore e ore e ore in fila alle Poste.
Io avrei dovuto organizzare la mia vita in funzione della necessità di spedire una busta. Avrei dovuto portarmi il pranzo al sacco, un libro da leggere, un cambio di mutande, una predisposizione a fare amicizia, e avrei dovuto modificare la mia percezione dello scorrere del tempo.
Dato che, stupidamente, non l’ho fatto, non ho alcuna possibilità. Non sono e non sarò mai un professionista dell’attesa.
Capisco che il servizio offerto dalle Poste di via Gozzoli non è compatibile con la vita normale, i ritmi normali, le esigenze normali di una persona normale in età lavorativa.
Per cui saluto ed esco, con la mia busta in mano.
Alle 9.30 entro in un negozietto della Mail Boxes Etc.
Esco alle 9.36, la busta è stata spedita. Il tipo al bancone ci ha messo un po’ perché nel frattempo ha ricevuto una telefonata.
Ma si è scusato tanto per l’attesa.

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