L’altro giorno, sulla mia scaletta “cose da fare prima di andare in studio”, c’era scritto:
. Passare in posta per spedire una bustona.
. Prendere le sigarette.
Per riuscire ad andare in posta, viste le mie precedenti esperienze, devo sottopormi ad un training molto rigoroso. Un allenamento mentale che prevede l’ascolto per 48ore di musiche rilassanti new age, l’assunzione di grossi quantitativi di rasserenante erba pipa della Contea, il rientrare in contatto con il mio animale guida totemico, grazie al rito dell’Uomo Chiamato Cavallo, dove il mio vicino mi appende con dei ganci al soffitto, la lettura continuata di tutte le poesie e tutti gli aforismi di Khalil Gibran, quelli veri, quelli presunti e quelli attribuiti, nonché il pettinare la ghiaia del mio giardinetto Zen per almeno sei giorni. Soltanto dopo aver compiuto quei passi, riesco ad andare in posta senza diventare Michael Douglas in Un giorno di ordinaria follia.
Quindi, sereno e serafico, mi reco all’ufficio postale. Sono le otto e quarantatre di un giorno feriale qualsiasi. Prendo il mio numerino fischiettando. Lo leggo, e lui mi dice che ci sono soltanto centoventi persone davanti a me.
Saranno state le musichette, i ganci nel petto o gli aforismi di Gibran, fatto sta che non mi incazzo per niente. Rimango tranquillo e rilassato.
La prendo all’italiana.
Mi dico:
- Oh, pazienza. Sarà per un’altra volta.
Esco, con tutte le intenzioni di spuntare il secondo elemento della mia scaletta.
Comprare le sigarette. Una cosa facile. Vai dal tabaccaio e le compri.
Attraverso la strada felice. Saltello come l’agnello rimbalzello verso il tabaccaio, dove potrò comprare la mia razione di roba che mi fa male.
Il tabacchi è anche bar, e anche ricevitoria.
Ha due casse affiancate, una per il bar e i tabacchi, l’altra per il lotto, il superenalotto e tutte le altre tasse sulla speranza.
Dietro le casse ci sono lui e lei. Forse sono marito e moglie, forse fratello e sorella.
Non lo so.
Entrambi sulla quarantina abbondante, entrambi con l’aria di essere già abbastanza stanchi della normalità del vivere normale. È una sensazione che provo spesso nell’ultimo periodo. Percepisco nelle persone la stanchezza del vivere ordinario, quando avrebbero voluto/dovuto/potuto nascere miliardari, o diventare ricchissimi e famosissimi a quattro anni come Jordy, il bambino che cantava Dur Dur D’être Bébé.
Invece, sfiga.
Gli tocca lavorare come tutti noi, e addirittura avere a che fare con delle persone comuni, invece che con il jet set internazionale.
Il jet set internazionale non è di casa a Baggio, ma fa niente. Per loro è comunque fonte di tristezza e uggia avere di fronte alla cassa me e non Paris Hilton. (Ho mirato alto, credo che essere amici del Baffo basterebbe, tanto per capirci)
Arrivo per prendere la mia dose di roba che mi ammazzerà, mentre i due stanno parlando tra loro. Non so di che cosa. Sono seduti uno di fianco all’altra, con le cicche, le caramelle e i gratta e vinci stesi con le mollette a dividerli, e parlano. Di cose loro.
Io dico buongiorno.
Lei si volta verso di me, alza il sopracciglio destro. Quella è la sua risposta al mio saluto, quella sarà l’unica e la sola interazione che avrà con la mia persona.
Lui, dall’altro lato, va avanti a parlare con lei.
Mentre lei abbassa il sopracciglio ne approfitto per dirle quello che vorrei.
Da quel momento in poi, non mi degnerà più nemmeno di uno sguardo. Nemmeno con la cosa dell’occhio. Nemmeno per sbaglio e di sfuggita.
- unpachettodiguluasrosse
Metto i soldi sul piattino.
Lei va avanti a parlare con lui, dall’altro lato. Si sbirciano tra i Pocket Cofee e le stringhe di liquirizia.
Lei è ben truccata, ben vestita, pronta per un vernissage da Katia Arredamenti.
Ha l’atteggiamento e lo sguardo di una che sta dietro la cassa di una tabaccheria per un bizzarro scherzo del destino quando, invece, era predestinata ad una diversa e più nobile carriera. Da quella di Madeleine Albright a quella di Cristina D’Avena. A scelta.
O forse è una maga. Infatti, con un’abilità da prestigiatore, senza muovere la testa, continuando a parlare con lui dall’altro lato, prende il mio pacchetto di sigarette.
Lo mette accanto alla mia banconota e incassa.
Io arraffo il pacchetto.
Lei, senza neppure guardarmi mette il mio resto sul piattino.
Va avanti a parlare con lui mentre le monetine tintinnano sul piattino.
- cazzo, neanche le regole minime dell’educazione.
Sibilo, mentre prendo il mio resto. Parlando con una nuca.
Mi piacerebbe dirti che dalla mia risposta ne è nata una rissa, dove mi sono distinto seminando schiaffazzi. Oppure, potrei dirti che i due si sono pentiti e alla fine mi hanno offerto un caffè per scusarsi della loro cafonaggine.
La verità è che non mi hanno nemmeno sentito. Non hanno fatto caso a quello che ho detto.
Questa è la realtà, e la realtà va così. Non metterò più piede in quel tabaccaio, ma non credo che il mio gesto potrà cambiare qualcosa.
Oppure potrei tornarci.
Ma prima devo comprarmi un camicia bianca, e trovare il modo di recuperare un Uzi.