Avviso: presenza di spoiler.
A me Sherlock Holmes manco mi piaceva. Non mi è mai piaciuto come personaggio, e non bastava l’immedesimazione con Watson per farmelo sopportare.
Adesso, dopo tre stagioni di Sherlock, mi ritrovo completamente addicted e già in fermento per la prossima stagione.
No. I libri non li ho riletti. Sono un ignorantone tamarro. Non bastano Moffat, Gatiss, Cumberbatch e Freeman per convincermi a prendere i volumi che tengo sugli scaffali in alto. È ancora vivido il ricordo di quanto mi sono brasato, soffritto, lessato, brandato e mantecato di noia durante la lettura fatta ai tempi che furono.
Per essere sinceri fino in fondo, anche le precedenti versioni cinematografiche e televisive dell’investigatore di Baker Street, per i miei gusti e il mio immaginario, non hanno mai rappresentato un granché.
A parte i degenti delle case di riposo, non credo ci sia nessuno pronto a entusiasmarsi guardando i telefilm con Jeremy Brett.
La nuova versione cinematografica di Ritchie funziona perché c’è Iron Man. Togli lui, i film fanno puuuffff. (I maligni dicono: anche con lui presente, fanno puuuufff comunque.)
Ah, dimenticavo Basil Rathbone. Iconico. Buono per i video house music. C’è anche Piramide di Paura. Di quel film non posso parlarne male. È un film degli anni ’80, venerato dalla cultura nerd-dominante, se ne parlo male mi levano la patente di nerd.
Ah, già. C’è anche Elementary.
Se conosci qualcuno che lo guarda, fammelo sapere.
Nonostante la mia distanza emotiva dal personaggio di Sir Arthur Conan Doyle, la serie Sherlock mi ha appassionato fin dalla prima inquadratura della prima puntata della prima stagione.
Okay, c’è tanto fan service, lo so. Ma è un fan service che riconfigura il personaggio non soltanto in chiave post-moderna, ma riesce, in qualche modo, a trasformare la serie in un finissimo meta-racconto senza essere stucchevole o scadere nella parodia.
Tra l’altro è un fan service che funziona anche al contrario, fa leva anche sui non-fan come il sottoscritto. Noi bastardi, conoscendo comunque bene Holmes, siamo lì che ci diciamo:
- Vediamo come riescono a rendere non palloso questo passaggio di trama o come se la cavano adesso…
Il lavoro di Moffat e Gatiss ha il suo punto di forza nella consapevolezza. Conoscono nel dettaglio quali sono i confini interpretativi del modello originale, e al tempo stesso sanno che il loro prodotto vive nell’era del web, in questi pericolosi tempi dove il patto di complicità è diventato un elemento più raro del dilitio.
Sherlock arriva e supera abbondantemente il punto narrativo a cui ambivano gli autori di 007. Pur lavorando su un archetipo più recente, anche con una partenza piuttosto buona, dal confronto con le esigenze del contemporaneo, 007 ne esce con le ossa rotte. L’operazione di ri-scrittura riesce in parte, ma con Skyfall annientano tutto.
Sherlock ce la fa, trasporta il personaggio direttamente nel ventunesimo secolo. Non è una questione soltanto tecnologica. Il cellulare in mano a Sherlock Holmes è uno degli elementi meno rilevanti.
È il modo, la forma, le atmosfere e la consapevolezza narrativa che accompagna l’intera operazione a rendere moderno il mito di Holmes.
Sanno di essere “guardati”, e a quel punto decidono di correre tutti i rischi possibili.
Il dialogo tra Cumberbatch e “barbetta” è in realtà un dialogo tra gli autori e il loro pubblico.
Compiono una scelta narrativa molto anni settanta: non ti dicono un cazzo. Anzi, praticamente fanno i troll. Prendono a bastonate sulla capoccia tutti quelli che, me compreso, da qualche parte, in qualche discussione, avevano fatto i professorini spiegando come Holmes sopravvive al salto.
La spiegazione-non spiegazione, e tutte le varie ipotesi disseminate nel prologo, sono una grande lezione di scrittura. Oltre, se possibile, a essere una grande lezione di produzione. Uno può scrivere tutto quello che gli pare, ma se non trova un produttore che sostiene quelle scelte narrative, non si va oltre a Don Matteo.
Ci sono dei momenti meh?
Sì, come in tutte le cose. Anche basta con le menate sulla memoria eidetica, e la gag sul rapporto gay tra Holmes e Watson è stata tirata un po’ troppo in lungo.
L’apporofondimento su Watson meriterebbe uno spin off, con lui che va fare il culo ai cattivi nella suburba.
In linea più generale il tutto riesce a essere così profondamente brit da non offendere, non tradire, non vilipendere lo spirito originario di Sherlock Holmes.
È di identità nazionale che si parla, di orgoglio britannico espresso attraverso una delle sue icone più forti.
Un personaggio alla radice della storia urbana di Londra, tanto da avere un museo in una casa dove ha abitato soltanto nella finzione letteraria.
E nella Londra di oggi possono muoversi soltanto Cumberbatch e Freeman.