Attraversare il territorio della narrativa di genere, per un turista frettoloso, si risolve spesso con l’osservazione superficiale delle architetture che costituiscono le basi della letteratura popolare.
Si riconoscono le etichette applicate ai diversi generi, si notano le loro caratteristiche dominanti, si fotografano i topòi, gli archetipi e le possibili formule magiche per elaborare l’intreccio delle trame. Raggiungendo l’apoteosi della formula, l’equazione morfologica della fiaba, gelidamente espressa dal matematico Propp.
Thriller, giallo, fantascienza, fantasy, horror, non sono soltanto dei cartelli che segnalano le zone precise di una libreria ordinata. Certo, possono essere la cornice di strutture narrative in tre atti, con atmosfere adatte a soddisfare le precise istanze dei lettori, ma un turista più attento, un viaggiatore della letteratura si accorgerà che nel mondo dei generi c’è anche qualcos’altro.
Sullo scaffale dedicato all’horror ci sono più di cinquanta libri firmati dallo stesso autore, da quei volumi sono stati tratti film, serie televisive, fumetti… Elementi penetrati in modo massiccio nell’immaginario collettivo, trasformando il loro autore, Stephen King (il destino è nel nome) non soltanto nel Re della paura.
“Parliamo della paura. Non alzeremo la voce e non ci metteremo a urlare. Parleremo razionalmente, voi e io. Parleremo del modo in cui il solido tessuto delle cose si disfa, a volte, con una subitaneità che ci lascia scossi.”(Stephen King, dalla prefazione di: “A volte ritornano” 1981)
Scrivere un racconto horror è indugiare con lo sguardo. C’è un tavolo, un freddo tavolo in acciaio nel centro di un obitorio. Sopra quel tavolo, un corpo coperto da un lenzuolo bianco. Scrivere horror significa non poter fare a meno di alzare quel lenzuolo, significa guardare gli occhi gelidi e fissi del corpo sdraiato lì sotto, e sentire che il nostro sguardo, in qualche modo, viene ricambiato.
Per King, la paura è nel tessuto delle cose, è parte integrante della vita, è una delle emozioni che costruiscono le nostre consapevolezze. La paura c’è, esiste anche se spesso si preferisce guardare da un’altra parte. La paura è una delle infinte componenti della realtà, e come ci insegna la fisica quantistica, la realtà è profondamente influenzata da chi la sta osservando.
King trasferisce questa osservazione soggettiva direttamente negli occhi di chi quel sentimento lo sta provando: I protagonisti.
Per il lettore, si traduce in una profondissima conoscenza dei personaggi, nell’attenta stesura delle loro psicologie e della loro storia personale. Una narrazione che, ipoteticamente privata degli aspetti tipici del genere di riferimento, assume i connotati propri del grande romanzo americano, la famosa Storia con la “S” maiuscola della letteratura anglosassone, dove il racconto diventa universale e incontenibile.
Se, per raccontare il sangue freddo del villaggio di Holcomb, Capote parte dalla nasalità del linguaggio dei bovari, King, nelle sue stagioni diverse, inizia il suo viaggio alla ricerca di un cadavere mostrandoci le normalissime attività di un gruppo di ragazzini in una capanna in cima ad un albero: “Un olmo, ora scomparso, ora in quel lotto c’è una società di traslochi. Progresso.”
I protagonisti, in questo modo, non sono un veicolo per portare al lettore le tematiche del genere narrativo, il rapporto profondo che si instaura con i personaggi kinghiani, diventa una sorta di oscura corrispondenza di malvagi sensi. Non si prova paura per il mostro in quanto tale, si prova un fortissimo terrore empatico perché quel mostro si relaziona con figure narrative che abbiamo, via via, imparato a conoscere.
L’horror kinghiano va oltre l’atto di sollevare quel maledetto lenzuolo.
La risposta al nostro sguardo, o la cosa che poi si alza dal tavolo, sono la conseguenza, inevitabile, delle azioni che ci hanno portato nel buio di quella stanza. Eventi e storie personali iniziate molto prima dell’atto esplicito di allungare la mano. Atto che porta alla soggettiva implosione interiore della paura che si affaccia, ringhiando, nel nostro quotidiano.
L’orrore, con le sue componenti splatter e gore, diventano in questo senso, parte del racconto e non il racconto stesso. Eppure l’horror kinghiano non è affatto una metafora, come la fantascienza per Philip K. Dick, o un pretesto, come il giallo per Friedrich Dürrenmatt.
L’horror, inesorabile spina dorsale della struttura narrativa, è l’ossatura che supporta, sorregge e fortifica dall’interno l’organismo/romanzo. E’ scheletro, è tanto importante da essere invisibile, nascosto sotto la pelle e la carne, l’unico modo che ha per venire alla luce è di subire una frattura esposta o un taglio molto profondo.
Quell’ossatura, composta dagli archetipi e dai linguaggi dell’horror, King ha sempre dimostrato di conoscerla fino al midollo. E’ uno dei pochi autori, non legato alla pura teoria della scrittura creativa, ad averne spiegato le dinamiche attraverso i saggi: “Danse Macabre” (1980) e “On Writing: Autobiografia di un mestiere” (2000)
Ha contribuito in modo massiccio alla trasformazione del genere horror nella sua forma più moderna, con tutto il suo lavoro narrativo, dall’esordio con “Carrie” nel 1974 in poi.
Per riuscire in un operazione simile, è necessario conoscere gli strumenti immaginari che si stanno usando.
King percorre i sentieri battuti da scrittori come Richard Matheson e Robert Bloch, forse i primi a svestire l’orrore dai pesanti e polverosi paramenti funebri del gotico, trasportando la paura nel mondo contemporaneo. Nel mondo di tutti i giorni, distante secoli e milioni di miglia dagli orrori del “ Castello di Otranto” di Horace Walpole , ma pericolosamente più vicino al parcheggio del Bates Motel, da Norman e da sua madre che aspetta in cantina.
Con Stephen King l’orrore diventa post industriale, la paura si aggrappa agli elementi che formano la nostra percezione del moderno. E’ horror urbano, in cui si muovono, prosperano e mietono vittime gli archetipi puri della letteratura del terrore. Il risultato è l’amplificazione della paura, attraverso il riconoscimento di una realtà oggettiva, mutata dall’inevitabile squarcio nelle sue carni, che mette in luce lo scheletro tremendo e disturbante che sorregge il racconto.
In questa logica, per esempio, ad essere posseduto da un’incontenibile orrore omicida, non è più un nebbioso castello nella brughiera inglese, ma è il simbolo stesso dell’industria e dell’american way of life: Un’automobile, “Christine”. Una Plymouth Fury del 1957, rossa fiammante e con gli interni in pelle. L’autoradio di serie, misteriosamente, trasmette solo vecchia musica rock n’ roll.
Sparisce quindi il volto squinternato e obliquo di Vincent Price dei barocchi film della Hammer, gli ambienti e le atmosfere diventano comuni, borghesi.
E’ così anche per i personaggi, densi di apparente ordinarietà, con le loro storie e la loro vita, così urbana, così fino-a-quel-momento civile. Si racconta di normali, comuni, litigi sull’essersi persi accanto ai filari di grano del Nebraska, finendo poi sacrificati in nome di un oscuro Dio pagano, sanguinario protettore delle messi. Realtà ordinarie, come un normale, comune, poster di Rita Hayworth da appendere sul muro della propria cella, per nascondere il tunnell che porta alla libertà dagli orrori carcerari della prigione di Shawshank.
La paura post industriale di King si può toccare con mano, è la creatura nel sottoscala, è un organismo sconosciuto in una lattina di birra, che tramuta un alcolizzato in una creatura orrenda.
L’orrore è un gatto che torna dalla morte, dopo averlo seppellito nel cimitero degli indiani, appena fuori città. Un terreno oscuro e magico, un terreno in cui mette le radici uno dei libri più agghiaccianti di King, “Pet Sematary”.
La paura è un cane rabbioso, che ringhia e sbava fuori dall’automobile in cui si è trovato un riparo,
sono i fantasmi in un lussuoso albergo deserto. Il terrore è nelle impreviste conseguenze di un banale gioco erotico, è negli occhi di una fan completamente pazza, che pretende un nuovo capitolo delle avventure di Misery.
L’esplosione del terrore appare inevitabile quanto l’apoteosi tragica nel teatro elisabettiano, e al pari di William Shakespeare, anche Stephen King muove i suoi personaggi all’interno di un teatro preciso. Non nel Globe Theatre sulle rive del Tamigi, ma in un intero stato del New England, il Maine, nei microcosmi immaginari di cittadine/feticcio come Castle Rock o Derry.
L’urbanizzazione dell’horror non prevede una metropoli, ma si radica in quella struttura sociale densa di segreti e misteri nota generalmente come provincia. Non importa che sia la sconfinata provincia americana, o un sonnacchioso paesotto italiano. Il risultato sarebbe identico, provincia fa rima con segreti, con fatti che devono rimanere nascosti. Quando qualcosa di tremendo, maturato in provincia, balza agli onori della cronaca, colpisce per l’apparente e assoluta normalità dei luoghi, dove si conoscono tutti, dove qualcuno sa, dove non avrei mai immaginato che in fondo a quel pozzo ci fosse la tomba di due ragazzini, o che una studentessa sorridente potesse annegare in un lago di sangue.
Fuori dalle metropoli, fuori dalle grandi città i luoghi diventano non-luoghi, simili ma non uguali, dove la bassa padana ritratta in “La casa dalle finestre che ridono” di Pupi Avati ha più di un punto di contatto con l’isola di Little Tall, dove si sta avvicinando la tempesta del secolo e con lei, anche il male è pronto a scatenarsi sulla terra. A parte l’orrore globale post apocalittico, raccontato in “L’Ombra Dello Scorpione”, l’arrivo, la presenza e l’esplosione delle tematiche horror hanno quasi sempre dimensioni contenute. Cittadine, case, isole, fino all’esasperazione del concetto di microcosmo con romanzi interi ambientati dentro una macchina (“Cujo”) o all’interno di una singola stanza (“Misery”, “Il Gioco di Gerald”) veri e propri esempi riusciti di capacità di scrittura.
Pesante come un macigno, rimane il soffermarsi dello sguardo.
La necessità di guardare, di descrivere, di affrontare l’abominio che si sta facendo largo nel tessuto delle cose, con la fondamentale differenza estetica rispetto agli orrori di Poe o di Lovecraft, che non si tratta di una “cosa tanto orribile da non poter essere descritta”, anzi, è una cosa tanto orribile da dover essere descritta. E si tratta del male, del male puro, senza alcun umorismo o ammiccamenti alle citazioni. E’ il male delle fiabe, quello da cui non c’è scampo.
Non è il mostro più umano degli umani che lo vogliono uccidere. Non ci sono le vie di fuga interpretative che si trovano in altri scrittori horror, come Clive Barker, dove l’orrore è nella normalità e la normalità è nell’orrore. Si tratta di bene contro male, senza i compromessi del politicamente corretto, dove i vampiri non si intervistano, ma si scannano a colpi di paletti di frassino.
Perché lì, nel territorio kinghiano dell’horror, assieme alla paura e ai mostri, esistono ancora alcune delle nostre perdute certezze.
Dall’alto della mia ignoranza in materia di scrittura, scrittura creativa e letteratura, ma da appassionato di king, condivido ogni singola parola sulla concezione di orrore kinghiana. grazie per l’articolo