Per dei motivi che io stesso ignoro, nelle ultime settimane il mio cervello ha deciso di distrarmi facendomi ripercorrere le strade del cinema di un certo tipo. Visioni di genere e di ultra genere. Film alternativi, diversi e tutteleletteredellalfabeto-movie.
Avevo già camminato su quei sentieri quando ero ggiovine. Ora ci torno. Parto con un ripasso, poi approfondisco e scopro via via cose nuove. Materiali filmici che, nei primi anni ‘90, senza internette, erano un po’ difficili da scoprire, vedere, studiare o approfondire.
(Nota: ho imparato che quando il mio cervello decide di portarmi a spasso, è bene assecondarlo. Se avverto curiosità verso qualcosa la soddisfo. Il mio lato inconscio sa il motivo per cui mi sta facendo distrarre con quel lavoro di documentazione e aggiornamento. E un giorno lo saprò anche io. Di solito va così)
La roba che sto studiando e ripassando in queste settimane è il cinema exploitation. Roba di serie B quando va bene, pellicole che sfruttano i generi narrativi in modo profondo. Pochi soldi. Attori cani. Direttori delle fotografia ubriachi. Registi che non vincono premi, e che per le major puzzano. Produzioni lontanissime da Hollywood e dalle sue regole.
Il termine stesso “exploitation” è difficilino da tradurre. La prassi prevede che venga inteso come “sfruttamento”, traducendo la parola in modo letterale. Il cinema exploitation quindi, è un tipo di cinema che sfrutta qualcosa. Un genere, una moda, una tendenza, un’idea. Però anche le produzione delle major comunque sfruttano qualcosa. La differenza quindi, oltre ai budget, gli attori, le competenze artistiche, e tutto quello che fa di una produzione una produzione di serie A, è il cosa e il come viene sfruttato quel qualcosa nel mondo dell’exploitation.
C’è un filone, come nelle miniere, e quel filone viene sfcavato fino all’osso. Ma il bello è che i filoni stessi diventano degli auto-filoni e dei sotto-filoni. Tutto si intreccia, si mescola, si incasina e diventa la galassia dell’exploitation contemporanea.
Il politicamente corretto e il vendibile dall’ufficio marketing sono concetti assenti, o non presi in considerazione.
Il periodo che apprezzo di più va dalla fine degli anni ’60 alla prima metà degli anni ’80.
Poi basta. Non mi piacciono le sexploitation con violenza brutale, preferisco le sex comedy e lo splatter mi ha stufato.
Oggi, in un contesto post moderno, alcuni settori di serie B sono diventati di moda e di serie A. Ma fa parte del gioco e del rintorcinamento culturale contemporaneo.
La cosa fenomenale è che in queste lande filmiche il cinema italiano fa la parte del leone. Universalmente il cinema italico è considerato il meglio del meglio dell’exploitation in tutte le sue salse. Abbiamo creato noi le regole e generato alcuni filoni in quell’ambiente lì.
Purtroppo, bisogna sempre aspettare l’imprimatur da parte di qualche registra straniero figo per rivalutare anche qui quel tipo di cinema e la gente che ci lavorava.
Pazienza.
In tutta onestà, spesso si confonde il girare un film di merda con il realizzare un capolavoro dell’exploitation. Con alcune pellicole succede. Così come succede che una roba sia talmente una merda da fare il giro su sé stessa e diventare un capolavoro.
Questa è la prima parte del viaggio di Diegozilla nel cinema exploitation. In rigoroso ordine alfabetico.
Barbarians Movies
Nel 1982 esce nelle sale Conan Il Barbaro, diretto da John Milius, con uno Schwarzenegger al top della sua forma che mena serpenti giganti. Questo provoca come effetto collaterale l’uscita negli anni successivi di una raffica di film simili, fatti con tremilalire e senza il testo di Robert E. Howard come base narrativa. Oggi definiremmo i vari barbari successivi al Conan di Milius come dei mockbusters (vedi voce quando arriverò alla M)
I film di barbari possono rientrare nel genere fantasy sword & sorcery, ma non è il fantasy pulitino ed educato di oggi. I film barbari sono barbari.
Privo delle atmosfere e la morale fiabesco/mitologica del racconto alla Tolkien, e del lato più teen delle produzioni di serie A, nel film barbarico c’è un fantasy volgare, sfrontato, molto violento. Tanto sangue, tante tette, tanto sesso e qualche nudo frontale. (Ciò nonostante, se eri teen negli anni ’80, i film di barbari te li guardavi eccome)
Gli effetti speciali lasciamoli perdere, la sceneggiatura pure, la regia è quel che è. Però ci sono lotte, decapitazioni, armi mitiche, eroi muscolari e donne nude.
Il cinema italiano piazza una serie di capolavori sullo scacchiere internazionale. Come accadde per gli spaghetti western, anche nel cinema babbbaro i registi italiani usano pseudonimi anglofoni.
Il più figo di tutti secondo me è Ruggero Deodato. Nel 1987, quando questo filone si sta ormai esaurendo, sfodera due barbari al prezzo di uno con: The Barbarians.
I protagonisti sono due gemelli: Peter e David Paul, gonfi come dei cotechini, dotati di un mullet assolutamente barbarico e con le stesse doti attoriali di un Unno ciclotimico.
Del genere barbarians movies il mio film preferito in assoluto è: La Spada A Tre Lame.
La regia è di Albert Pyun. Il cattivo è il mitico Richard Lynch, che un paio di anni dopo tenterà di invadere gli Stati Uniti e troverà Chuck Norris armato di Uzi a sbarrargli la strada.
Beach Party Movies
Anni 60. Film popolari con surf, spiagge assolate e ragazze in bikini. Tutto molto positivo, canterino, solare, parecchio paolotto. I plot sono più o meno sempre uguali. Una commedia d’amore con un intreccio a equivoci e nuovi arrivati in spiaggia che scombussolano lo status quo delle ragazze e dei ragazzi. Dentro ci puoi trovare Elvis Presley, Frankie Avalon e via discorrendo. Occhio, non è un babewatch alla Baywatch. Siamo all’oratorio.
Il filone si esaurisce nel 1969, perchè quel tipo di gggioventù nel 1969 sparisce.
Dopo verranno prodotte delle varianti horror e sexploitation del genere di partenza.
Bikers Movies
Le gang di motociclisti, per la cultura ammeregana, sono una roba seria.
La nascita delle bande di bikers è strettamente legata al rientro dai reduci della Seconda Guerra Mondiale. Molti di loro fondano delle bande, dove replicano il senso di fratellanza e di appartenenza a un gruppo che avevano vissuto nei loro plotoni. All’inizio la percezione della società civile nei loro confronti è positiva. Poi nel 1947, al mitico raduno di Hollister in California, i dirty bikers fanno casino. Tumulti, scontri, macelli, e anarchia. Da un lato vengono fondati club di motociclisti per benino, e al contempo nasce il concetto di “onepercenter” e di “outlaw”. Ovvero le gang non proprio per benino. Da quel momento in poi, per i benpensanti americani biker farà rima con balordo.
L’industria cinematografica non poteva perdersi tutta questa roba. Nel 1953 esce
Il Selvaggio. C’è Marlon fighissimo Brando in moto, con il Chiodo, ed è a capo della Black Rebel Motorcycle Club.
Da lì in poi è un raduno cinematografico costante di motociclisti cattivi che scombussolano la vita del bravo e buono americano medio che vive nella sterminata provincia americana.
Film che possono essere più o meno violenti, più o meno estremi, più o meno belli.
Tra i belli, sicuramente c’è Motorpsycho di Russ Meyer.
Con Hell’s Angels e similari, si va avanti a terrorizzare i bravi padri di famiglia fino al 1969, quando esce il film che crea il secondo filone narrativo legato al macrogenere del bikers movie. Quel film è Easy Rider.
Da Easy Rider in poi il biker cinematografico non è più un balordo tout court. La moto diventa l’equivalente metaforico del cavallo, e il biker è uno che vive la sua libertà western vivendo a suo modo la nuova frontiera americana. Quella delle strade lunghe e dritte. Il biker è anticonvenzionale e contro il sistema. Ma, sotto il giubbotto di pelle, batte un cuore molto simile a quello dell’eroe americano classico per antonomasia, il solitario contro tutto e tutti che lotta contro “il potere” di ogni genere e tipo.
Blaxploitation
Parlare oggi di blaxploitation è un casino. Dal mio punto di vista da bianco che vive nel 2015, la blaxploitation è un vero e proprio paradosso etnico. Oggi questo paradosso è ancora più evidente, in funzione del lavoro che è stato fatto sul linguaggio, l’integrazione, le lotte sociali e le campagne contro gli stereotipi etnici.
Comunque sia: negli anni settanta nasce un filone fortemente caratterizzato da stereotipi razziali legati ai neri. Cinema etnico, pensato e prodotto per un pubblico nero. Gli eroi e le eroine di questo genere sono l’esasperazione filmica del black cool.
I neri che fanno? Schifano quei film perchè li considerano razzisti?
Qualcuno sì, ma per la maggior parte no.
I neri riempiono le sale e fanno esplodere la blaxploitation come una supernova filmica fatta di camicie viola, pantaloni a zampa, papponi con i baffi a manubrio, uomini in pelliccia, gente di Harlem che fa karate. Ambientazioni cittadine, attitudini criminali. Vengono fondate delle cattedrali in cui si venerano le divine zinne di Pam Grier.
Oh. A me la blaxploitation piace un casino, e Pam Grier pure. Fred Williamson lo vorrei come zio che viene a tirarmi fuori da guai. Però, penso spesso a come avremmo percepito la cosa se, per dire, dei produttori americani, attraverso delle case di produzione americane, avessero lanciato la moda dell’italianploitation. Con tutti gli stereotipi italici messi in fila, cannottiera, catenazza e autoradio sotto l’ascella.
Rimane il fatto che Super Fly è un film meraviglioso e la colonna sonora di Curtis Mayfield ancora di più.
Bruceploitation
Il 20 luglio del 1973, all’apice della sua carriera, mentre sta per essere consacrato come una star internazionale, Bruce Lee muore. Post mortem diventerà comunque una star internazionale e un mito del cinema, ma sarà un mito che i suoi fan percorreranno a ritroso.
Lee aveva trasformato il genere arti marziali in un fenomeno da botteghino, grazie al suo modo di concepire il genere e alla sua faccia. Quindi, siccome per gli occidentali “tutti i cinesi sono uguali”, i distributori e i produttori internazionali da quel momento in poi trasformano tutti i cini che fanno Kung Fu in tanti piccoli Bruce Lee.
Escono una valanga di pellicole con attori che vagamente assomigliano a Bruce Lee, nei credits e sui cartelloni vengono scritti a caratteri cubitali dei nomi assonati, tipo Bruce Li o Bruce Lai, Bruce Ly e tutti i Li che ti pare.
Si replicano i plot dei film originali con Lee, se non altro per le atmosfere e le ambientazioni di base. I film bruceploitation e i film autentici di Bruce Lee si accavallano via via che il fenomeno Lee si espande in occidente. Coesistono nelle sale e nelle televisioni.
Il filone si esaurisce dal 1978 in poi quando, finalmente, viene incoronata una nuova star adatta per i palati occidentali. Il suo nome è Jackie Chan e il film che chiude per sempre la bruceploitation è Snake in the Eagle’s Shadow
Tra i vari film cloni con attori cloni, il mio preferito è: Exit the Dragon, Enter the Tiger, dove il fantasma di Bruce Lee, che è morto, chiede a Bruce Li di prendere il suo posto e vendicarlo.
Cannibal
Mi dispiace, forse ti deluderò un pochino, ma devo dirti che a me il genere cannibal mi ha sempre fatto cagare. Pure quando ero giovine e splatterofilo.
Il filone lo apre Umberto Lenzi nel 1972 quando gira: Il Paese Del Sesso Selvaggio. Per fartela breve, prendi lo script di: Un Uomo Chiamato Cavallo, mettici una tribù birmana al posto degli indiani, buttaci dentro un po’ di sesso e delle sequenze brutali di cannibalismo e violenza sugli animali dove la videocamera insiste, persiste e rimane.
Il genere nasce così. Poi alla gente parte la brocca. Non si sa come o perchè, ma da lì in poi si scatena la moda cannibale.
Ambientazioni esotiche, giungle che quando va bene sono vere, ma nella maggior parte dei casi è il giardino del cugino del produttore, un mazzetto di attori diplomati al canificio e mezz’ore filate di effetti speciali da alta macelleria.
Violenza visiva brutale e insistita, gore, splatter, squartamenti finti di esseri umani, e squartamenti spesso veri di animali. (Vero, Barbareschi? Come sta la tartaruga?)
Registi italiani e spagnoli dominano le scene internazionali. Nel cannibal non ci batte nessuno e siamo i più fighi del mondo. Nel 1980 esce quello che è considerato l’assoluto capolavoro dell’intero genere: Cannibal Holocaust di Deodato.
Carsploitation
Auto. Ma mica auto qualsiasi. Non trovi la Panda e la Uno nei film carsploitation. Questo filone ha creato, alimentato, diffuso e inserito nell’immaginario collettivo globale il concetto stesso di Muscle Car, ovvero: Ford Mustang (Shelby o anche no), Dodge Charger, Pontiac Firebird, Chevrolet Camaro, e chi più ne ha più ne metta. Di serie, elaborate, da gara, pulite o sporche, l’importante è che siano veloci, muscolari, fighissime e inseguite da uno sceriffo con gli occhiali da sole a specchio.
A bordo, i tabbozzi più cool mai concepiti da mente umana.
I plot sono semplici e lineari. L’auto se non è tua va rubata. Se l’auto è tua ci fai le gare. Se sei molto bravo con le gare attiri guai e arriva lo sceriffo che cerca di prenderti. Male che vada i guai si chiamano: banda di cattivi rapinatori che ti obbligano a fare da autista post rapina con la tua macchina. E poi inseguimenti, incidenti girati live e non CGI, corse contro il tempo, strade deserte, gare coast to coast, libertà, protagonisti non corretti politicamente, belle gnocche in hot pants e colonne sonore adeguate.
Il periodo più figo di questo filone è quello degli anni ’70. La tripletta delle meraviglie è: Vanishing Point, Dirty Mary Crazy Larry e il Gone in 60 Seconds originale.
La versione per famiglie del filone è, vabbè, la saga di Herbie Il super Maggiolino.
L’incarnazione sci fi post apocalittica del genere carsploitation è il filone Death Race, ma ne parleremo poi.
(Continua… E ce ne vuole ancora un sacco per arrivare alla Z di Zombie.)
*_*
Tutto molto bello.
Ancora, please.