Titolo alternativo: Il caso Morpurgo.
E’ fissata per oggi la prima udienza al tribunale di Foggia, in seguito alla querela ricevuta dalla giornalista Marina Morpurgo per la nota questione del suo post su Facebook.
In poche parole: ha visto un manifesto pubblicitario, ha espresso la sua opinione, è stata querelata per diffamazione.
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Ora, siccome questo mio articolo tratterà di questioni di lana caprina, sesso degli angeli, massimi sistemi, uova, peli, utopie digitali e pepperepè, è bene fare una premessa:
Io sto dalla parte di Marina Morpurgo.
Quel manifesto era orrendo e lei ha fatto bene a dire quello che pensava a proposito.
Però, non sono per niente d’accordo con i modi e la forma con cui questa vicenda è stata portata all’attenzione dell’opinione pubblica.
Titola L’Espresso: “A processo per un commento su Facebook” Scusami, per quale cazzo di motivo io non devo essere legalmente responsabile di quello che scrivo sui Social Network?
Non sto questionando sull’episodio specifico. La mia è una riflessione in termini generali.
Anche perchè, nel commento incriminato, Marina Morpurgo esprime la sua opinione in modo elegante e per niente aggressivo. Ed è un nonnulla, in confronto a quello che si legge ogni minuto su Facebook.
Bestie che vomitano commenti razzisti, sessisti, che incitano allo stupro, che applaudono alla morte di vittime innocenti. La prima cosa che leggi, se si tratta di un qualcosa legato a una donna è: “troia” in maiuscolo seguito da esclamativi e da una manciata di “1”.
Ecco. Quelli, e non Marina, dovrebbero andare “A processo per un commento su Facebook”. Tutti i giorni, tutte le ore, tutti i minuti, dovrebbe esserci uno stronzo in tribunale chiamato a rispondere di quanto ha scritto sui Social Network.
Però, e siamo nel paradosso che si crea quando non si riesce a comprendere che siamo alla coesione percettiva e antropologica tra realtà fisica e realtà digitale, ora a processo c’è Marina.
E si grida in modo isterico alla nostra libertà di espressione messa in pericolo se si finisce a processo per colpa di un post su Facebook.
Mi dispiace per Marina Morpurgo, credo, spero, mi auguro che venga assolta dall’accusa di diffamazione.
Però, allo stesso tempo, spero e mi auguro che in tribunale ci finiscano tutte quelle persone che pensano che il Web sia una zona franca dove rovesciare il proprio odio e la propria belluina ignoranza senza temere alcuna conseguenza.
Si sta facendo un sacco di confusione sul concetto di “libertà di espressione”.
Forse perchè la diamo per scontata, forse perchè non ci ricordiamo più quanto e come vada difesa la nostra libertà di espressione. Nessuno, anche se ci sarebbero gli strumenti tecnici per farlo, ti sta impedendo di dire esattamente quello che vuoi sul Web.
(Te lo dico oggi: a limitare davvero la tua libertà di espressione non sarà un giudice, sarà un software)
Il passaggio successivo è accettare le responsabilità che derivano dalla Libertà di Espressione.
E difenderla.
Anche andando in tribunale, se necessario.