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Tutto Il Resto

Quella bella casa sulla Martesana…

28 marzo 2013 • By

Di sicuro, è uno dei 10 posti più inquietanti di Milano.
Non passo da quelle parti da un po’, per cui bisognerà accontentarsi delle schermate prese da Google Streetview.
La casa in puro serial killer style si trova in via Idro. A lato della Martesana. Via Idro è in fondo, in fondo, in fondo a viale Padova, praticamente a Cascina Gobba.
La via segue il canale della Martesana, e finisce in un campo Rom.
Cammini, tenendo il naviglio a sinistra, e a un certo punto…
Eccola lì.
(Clicca per ingrandire le immagini)

Tra CSI e Non Aprite quella Porta. Con un pizzico di Avati e una spruzzata di Fulci. Una dimensione abitativa a cavallo tra le atmosfere di Fincher e quelle di Thomas Harris.
La casa.
Sulla Martesana.
Esposti, all’aperto, una collezione di peluche giganti e bambole folli. Alcune nuove, altre decomposte dal tempo e dalle intemperie

I pupazzi e i peluche, con i loro occhi di vetro, osservano il dolce scorrere delle acque marroni.
C’è anche un orologio, fermo. Segna l’ora esatta due volte al giorno.
Ho bazzicato a lungo quella zona, per questioni di lavoro, ma non ho mai visto nessuno sistemare i pupazzi o sostituire quelli consumati.
Non ho mai visto nessuno entrare o uscire da quella casa.
Certo, non ci sono mai passato di notte, ma non ho molta voglia di andare a controllare.

 


zombi99
Io e i fumetti, Pseudo Tumblr, Tutto Il Resto

Venerdì zombie, reprise!

22 marzo 2013 • By

Tempo fa ho fatto un post su Undead Trinity, un web comics a tema zombesco che potete leggere cliccando qui.
Poi, ho passato i tre giorni di Cartoomics accanto allo stand della Umbrella. Così, il mio vecchio amore per gli zombie è rifiorito in modo vigoroso.
Continuo a non sopportare la serie TV di The Walking Dead. Però ho preso il fumetto in edicola e mi è piaciuto davvero un botto.
Zombi. Considerando che Undead Trinity va avanti che è una bellezza, che sto per ordinare su Amazon tutta la serie a fumetti di TWD, che i vecchi amori non si scordano mai, ne approfitto per parlare un po’ di morti viventi.
Tiro fuori dai meandri del mio computer un paio di pezzi sugli zombie che avevo scritto ai tempi di Garrett.
Era la mia rubrica di approfondimento sui morti viventi. Un po’ di documentazione, un po’ di curiosità.
Il titolo originale era: STAYING ALIVE! Rubrica sui morti, per gente viva.
Ne ho scritte tre, una per volume. A partire da oggi, saranno i post del venerdì, i testi sono stati smanazzati per l’occasione.

Haiti è una splendida isola.
È il posto giusto per il turismo all inclusive: una nazione serena e pacifica, famosa per le rivolte di massa a colpi di machete, le torture dei Ton Ton Macoute, la follia dittatoriale della famiglia Duvalier, e la benevolenza innata della popolazione locale.
Tra le molte cose che Haiti ha esportato nel mondo, spiccano il voodoo e il concetto di “morto vivente”.
Lo zombi “nasce” (si fa per dire) lì, tra le palme e le piantagioni di cotone, in un background estremamente violento.
Uno dei modi di concepire lo zombi è dunque strettamente legato al voodoo. Quello è il modo classico, tipico del buon vecchio horror in bianco e nero di una volta, prima di Gorge Romero.
Lo zombi, in origine, appartiene in un contesto sociale, storico e geografico circoscritto e preciso. Con una spiegazione sovrannaturale altrettanto precisa, legata all’intervento di un “loa” del voodoo.
Ma procediamo con ordine.
Per prima cosa servono un “bokor” o una “mambo”: stregoni voodoo in grado di risvegliare i morti, oppure di rubare l’anima a un vivo, come preferite.
Grazie ai poteri di uno stregone, è possibile evocare un “loa”, cioè un affabile demone haitiano. Con il suo intervento, ci si impadronisce dell’anima del soggetto umano prescelto, trasformandolo, al momento della morte, in uno schiavo fedele, sotto il completo controllo del suo padrone.
Detto questo, che cosa ce ne facciamo di uno zombie, ad Haiti?
Lo usiamo come manodopera a costo zero nelle piantagioni, per esempio.
Oppure non ce ne facciamo niente, e diventa il simbolo della nostra potenza di stregoni. Può essere trasformato per vendetta in seguito a uno sgarro. O, magari, ci piace la moglie di un tizio, ma lei non ci sta, e noi gli zombifichiamo il marito.
Questo morto vivente non ha il morso contagioso, non attacca l’uomo (a meno che non gli venga ordinato) e obbedisce al suo padrone come un cagnolino.
Secondo tradizione, lo zombi non deve mai mangiare cibo contente sale o assaggiare il sapore del sangue umano, altrimenti lo stregone perde il controllo della sua creatura.
Ad Haiti gli zombi ci sono davvero.
Punto.
Nel 1976 gli inviati di una rete televisiva francese intervistarono un certo Narcisse Clovis, un ex zombie, internato in una clinica psichiatrica di Port Au Prince.
Ne seguì un lunghissimo studio scientifico sullo zombie haitiano, che portò a un’interessante conclusione, resa nota al mondo intero, nel 1984, dallo scienziato Wade Davis: l’unico occidentale a possedere la famosa “polvere degli zombie” .
Se per fare un tavolo ci vuole il legno, per fare uno zombie ci vuole il pesce palla.
Dalle ghiandole del paffuto animaletto, il cui nome scientifico è Tetrodon Cutcutia, si estrae infatti una tossina devastante, nota come Tetradotossina.
Ne basta un milligrammo per uccidere una persona. Ma, seguendo la ricetta segreta del voodoo, con il veleno del pesce palla è possibile realizzare una droga: la polvere degli zombi, che contiene un potentissimo alcaloide allucinogeno. Somministrata a una vittima, la porta a uno stato di morte apparente.
Secondo Davis, il cervello rimane in parte cosciente. La vittima “vive” consapevolmente la propria “morte”. E l’esperienza del proprio funerale e della propria tumulazione conduce alla follia.
Se in più ci aggiungiamo le conseguenze dell’avvelenamento (lo “sballo da pesce palla”), capiamo perché gli zombie sembrano decisamente rincoglioniti e camminano caracollando.
Sono dei tossici.

(continua venerdì prossimo)


Food, Fumetto, Real Diegozilla, Tutto Il Resto

Un pranzo di lavoro.

30 aprile 2012 • By

L’altro giorno ho preso la muturetta e sono andato a Chinatown.
Non so se lo sai, ma sto facendo un fumetto ambientato in via Paolo Sarpi, con protagonista cinese. Conosco bene quella zona perchè ci sono nato, ma si sa, le cose cambiano in fretta in questa Milano che arranca verso l’expo.
Sono tornato laggiù per documentarmi, per guardarmi attorno, per capire alcune cose, per respirare gli odori della chinatown milanese, che è uno dei miei quartieri preferiti.
Ho un’adorazione per i quartieri cinesi.
Ho parcheggiato la muturetta e mi sono infilato nelle viuzze laterali. Ho sbirciato un po’ nei cortili e nei negozi. Ho guardato quello che accadeva attorno a me.
Documentazione. Quella vera.
Poi, dopo un po’ di giringiro, come spesso accade in questi casi, la mia meta ha trovato me.
Non sapevo che dovevo andare lì, fino a quando non mi ci sono trovato davanti.
Una trattoria cinese.
Piccola. Con insegna in ideogrammi, lanterne rosse, una manciata di tavoli all’interno e una clientela rigorosamente asiatica.
Avevo fame. Sono entrato.
I pochi clienti hanno smesso per un momento di mangiare e mi hanno guardato, con le bacchette immobili a metà strada tra il piatto e la bocca.
La cameriera mi ha guardato. L’altra cameriera mi ha guardato. Impossibile capire se mi guardavano bene o male. Non so. Guardavano me e basta.
Io guardavo una vaschetta piena d’acqua messa sul bancone. Dentro c’erano delle piccole anguille vive che sguazzavano. Piccolissime, simili a minuscoli serpentelli. Accanto, una zuppiera piena di uova sode nere.
Ero entrato in “Grosso guaio a Chinatown”.
Cerco una ragazza cinese con gli occhi verdi, preparandomi a combattere.
Invece no.
Non arriva neanche Egg Shen a parlarmi del sangue nero della terra.
Mi siedo e apro il menù. Italiano pressapoco, ma chi se ne frega.
Arriva la cameriera. Anche lei italiano pressapoco, ma non importa.
In quel momento potevo essere un una chinatown qualunque, non per forza quella milanotta, potevo essere ovunque nel modo dove è presente una comunità cinese.
Il menù non era occidentalizzato.
Ed era proprio il menù che stavo cercando. Mi sono fatto spiegare alcune cose. A fatica, ma volonterosamente, mi sono state spiegate.
Non erano i soliti piatti della cucina cinese adattati per i palati occidentali. Erano piatti veri. Quelli che dei cinesi veri stavano mangiando, lì, davanti a me, guardando un telegiornale di Pechino da una tele arrampicata vicino al soffitto.
Ordino.
Attenzione. Se hai lo stomaco debole non andare avanti a leggere.
Il mio pranzo è stato:
Vero riso alla cantonese.
Quello con la cotica di maiale caramellata, e non con i dadini di prosciutto cotto Rovagnati.
Un piatto corposo, forse un po’ pesante per un pranzo di lavoro, ma dal sapore deciso e appagante.
Lingue di anatra affumicate.
Sapore molto, molto, intenso. Difficile da paragonare a qualcos’altro. L’affumicatura e il loro essere lingue di pennuto danno al piatto un sapore di… Di… Aia.
Ravioli speciali.
Rotondi, spessore della pasta doppio rispetto a quelli normali. All’interno una farcitura di carne di maiale, verdurine e brodo. Dei “dumplings” quindi, molto simili a quelli che ho mangiato a New York, ma con meno brodo all’interno.
Un buon pranzo di lavoro, e se riesco a ritrovare quella trattoria ci tornerò.
La prossima volta mi farò coraggio e ordinerò anguille vive e uova nere.


Scrittura, Workshop

Scrittura e documentazione (1)

13 ottobre 2009 • By

write002

Matteo, nei commenti un paio di post qui sotto, mi chiede di spiegare come gestisco tutto il materiale di documentazione necessario per elaborare una storia.
Facciamo un paio di premesse.
Scrivendo fumetti, ci sono “due tipi” di documentazione, riassumibili come: “lavoro di ricerca” e “referenze fotografiche” per il disegnatore.

Partiamo dalle referenze fotografiche, che è più semplice.
Sottopremessa: Nel mio lavoro non ci sono regole universali. Per cui non è detto, non è obbligatorio, non è scritto da nessuna parte che uno sceneggiatore sia obbligato a fornire al suo disegnatore tutti i riferimenti fotografici che servono per quella determinata storia. Io lo faccio, l’ho sempre fatto, e lavorando a stretto contatto con Boselli ho visto che lo fa anche lui. Per cui, su Dampyr lo facciamo.
In genere funziona così: In coda alle tavole di sceneggiatura, c’è un ciccioso fascicolo di fotografie inerenti alle scene descritte prima. I vari blocchi di fotografie sono in ordine cronologico con la sceneggiatura, spesso c’è scritto la tavola e la vignetta a cui si riferiscono. Nella sceneggiatura, dopo la descrizione scrivo proprio: vedi foto A34, oppure: guarda la foto indicata come “scannagatti”. Se la documentazione è tanta, le foto sono raccolte in blocchi tematici.
Mi spiego meglio. Il prologo di una storia che sto scrivendo è ambientato nei giorni precedenti allo sbarco dei marines a Ivo Jima. Nella documentazione fotografica, c’è un faldone il cui titolo recita: Tutto quello ti serve per il prologo guerresco. Contiene le foto delle divise, degli armamenti, dei mezzi, dei marines e dei giapponesi, dei bunker, ci sono panoramiche e dettagli delle isole del pacifico. Foto delle facce dei soldati, foto dei soldati della seconda guerra mondiale in azione nel pacifico e via discorrendo.
Più o meno, per un prologo di undici pagine, ci sono una cinquantina di pagine di documentazione fotografica. Preferisco allegare delle foto storiche vere, piuttosto che immagini tratte da film di guerra.
Perché nella mia testa, in questo modo, il disegnatore può interpretare il “vero” e trasformarlo in “fiction”, piuttosto che partire dalla “fiction” rielaborandola.
Quando le referenze fotografiche diventano troppe? Quando si esagera?
Di solito è il buon senso che me lo dice. Ammetto che qualche volta, in passato, ho esagerato. Comunque dipende molto dal tipo di storia e dal disegnatore con cui sto lavorando.
Mettiamo che sto facendo un fumetto con Rosenzweig. Io e Maurizio siamo entrambi esperti in arti marziali. E’ chiaro che se in una scena uno para il calcio di un altro e lo stende, se scrivo per Maurizio io gli dico: Vignetta 1: Para il calcio anticipandolo in stile wing chun. Vignetta 2: entra in progressione. Vignetta 3: colpisce alla gola. Per Mauri è tutto chiaro, non ho bisogno di dirgli altro.
Ma, se il disegnatore con cui sto lavorando non è un esperto, dovrò fornirgli degli esempi, se voglio che il personaggio usi delle particolari tecniche di lotta.
Una volta, per una scena di combattimento in cui personaggio A, disarmava il personaggio B da un bastone, sono andato nello studio di Ferrario, gli ho dato in mano un manico di scopa, e gli ho fatto vedere fisicamente come si fa.
Tutte le foto che raccolgo per questo tipo di documentazione, alcune le butto via. Altre le conservo, catalogandole per tipologie.
Conservo soltanto le foto di oggetti, armi, mezzi, vestiti, divise e via discorrendo. Invece butto via le foto con scorci di città, luoghi o ambientazioni specifiche. Perché?
Per non correre il rischio che in due fumetti diversi ci siano, per esempio, gli stessi scorci della medesima città, e per non ripetere le atmosfere o le scene.
Come si trovano quelle cose lì?
Prevalentemente uso la Rete. Dimenticati la ricerca immagini di Google italiano. Usa quello americano. Leva tutti i filtri di ricerca. Parti da una semplice ricerca per immagini e poi approfondisci i siti che ti indica. Panoramio è ottimo per le foto ambientali, per esempio.
Poi, ho chiaramente i miei siti segreti che non svelerò.
Tutto questo lavoro è collegato al lavoro precedente, quello di ricerca, quello che viene fatto nella fase di elaborazione del soggetto. E lì non si tratta “solo” di fotografie, ma è proprio un lunghissimo lavoro di analisi e studio, simile a quello di un archeologo che inizia a scavare per portare alla luce lo scheletro di un Tirannosauro. Solo che nel nostro caso, la terra da scavare è l’immaginario personale e globale, e il Tirannosauro è una storia da raccontare.
La documentazione che serve per scrivere una storia è strettamente collegata al come mi viene in mente una storia e al come elaboro la trama.
E’ un discorso lunghissimo, che affronterò nel prossimo post.

Nota aggiuntiva per te che non leggi fumetti:
In effetti sì, ci sbattiamo un casino.


Dampyr, Fumetto

Sfida alla Temsek!

9 ottobre 2009 • By

Hai già fatto un salto in edicola per comprare il numero 115 di Dampyr, scritto dal tuo Diegozilla preferito?
In giro si dice che si sparano talmente tanto che alla fine il fumetto prende fuoco. C’è un po’ di continuity, ma non ti spaventare. Anche se non hai mai letto Dampyr lo capisci lo stesso.
Tipo che il supernemico di Harlan e soci, mette altre pedine sulla sua scacchiera, preparandosi per le mosse finali del suo piano… Non dico altro, sennò quelli che leggono Dampyr poi mi strozzano se spoilero troppo.
I disegni dell’ottimo Alessandro Bocci sono una gioia per gli occhi, e come sempre il mio lavoro di sceneggiatura parte da documentazione reale.
Armi, munizioni, modi per comprarle, tutto vero…
Ma anche quello che si vede nel prologo è tutto vero.
Spesso, in giro per il mondo, vengono ritrovate le carcasse dei mostri creati nei laboratori della Temsek.
Non ci credi?
Clicca qui. E’ il punto di partenza di tutto il mio lavoro di documentazione, allegato nelle foto reference date a Bocci. Quel simpatico “coso” lo si vede all’inizio dell’albo.
Gino merita un piccolo approfondimento a parte.
Qualcuno si è chiesto se ha le “munizione infinite”. La risposta è chiaramente sì.
Altrimenti, che senso ha creare: “un mostro orrendo bavoso pieno di zanne alto tre metri con un mitragliatore M60 al posto del braccio destro” se non può sparare quanto cazzo gli pare?
Gino ingloba il mitragliatore e i proiettili nel suo organismo, e genera le munizioni nuove nella sua schiena, infatti il caricatore a nastro, se ci fai caso, finisce proprio lì.
Concludendo:
Se trovi i resti di un mostro nel tuo giardino, mandami le foto che lo metto nel prossimo Dampyr.