A Londra c’è una via che si chiama Brick Lane.
Quella è una delle mie vie preferite. Tutte le volte che vado a Londra alla fine ci passo Vado laggiù a fare foto, perchè in quelle via e in quella zona c’è un sacco di roba bella sui muri.
Street Art. Tanta, tanta, street art che si esprime a strati sui muri di mattoni. Mi piace fotografare quelle cose.
Anche l’ultima volta che sono stato a Londra, sono andato a Brick Lane e ho fatto un po’ di foto. (Le ho messe sul mio profilo su FB)
A Londra c’è una via che si chiama Brick Lane.
In quella via c’è un bar. Un posticino decisamente hipster, e io non ci sono mai entrato. Non so perchè, non ho nulla contro gli hipster e i loro bar.
Fatto sta che questo locale ha un problema.
Si chiama FIKA.
È un locale svedese. Se ho capito bene, Fika in svedese significa prendersi una pausa, fare merenda e incontrare gli amici.
Non credo che chiamare un locale Fika a Londra sia un grosso problema, non credo che lo sia in nessun luogo al mondo, se ti rivolgi a persone che hanno superato l’esame di terza media.
Eppure. Dato che a Londra ci sono parecchi italiani, il FIKA di Brick Lane è diventato una sorta di tappa turistica.
Fuori sfilano italiani in gita che si danno di gomito. Padri di famiglia che ragliano alla moglie:
- Oh! Hai visto lì! Ahahahaha!
Italiani che ridono, si fanno i selfie davanti all’insegna, da condividere con gli amici.
- Oh! non hai idea della Fika che ho visto a Londra.
E ridono. Ridono. Ridono.
A Londra c’è una via che si chiama Brick Lane.
In quella via c’è un bar. Un posticino decisamente hipster che si chiama Fika.
E io, tutte le volte che ci passo davanti e vedo le reazioni gibboniche dei miei connazionali, mi cala un pessimismo leopardiano che a fatica riesco a strapparmi di dosso.
Sono appena tornato da Londra.
Uno dei miei soliti giri, un po’ per sfizio, un po’ per lavoro.
(la parte “lavoro” te la racconto poi.)
Questa volta ho aggiunto Brixton al mio itinerario. Sono andato laggiù a dare un’occhiata. Il posto è proprio davati all’uscita della metropolitana. Non puoi sbagliare.
Davanti al murale dedicato a David Bowie ci sono un sacco di cose. Fiori, frasi, un muro ricoperto di scritte e pennarelli lasciati apposta anche per te.
Ci sono parecchie persone, anche se è mattina presto ed è sabato.
Ho trovato mamme e papà con bimbe e bimbi, che vanno lì per un momento di silenzio davanti a tutti quei fiori.
E io mi auguro, spero, che quel momento serva ai bimbi e alle bimbe per formarsi dei gusti musicali decenti.
Persone, tante persone che si fermano un momento. Accendono una candela, lasciano un mazzo di fiori, un disco, una foto, un disegno.
Il tutto avviene in silenzio, mentre nella mia testa suona: “China Girl” e non so perchè.
(Ho testato il format “gallery” di questo blog, clicca sulle freccette che le immagini scorrono)
Sì, mi è tornata voglia di fare foto.
Qui ho usato la mia agile Canon G11.
Milano Expo 2015 – an abdridged guide for foreigners
13 marzo 2015 • By Diego CajelliCrossing the street
In my city, when drivers stop to allow pedestrians to traverse on crosswalks, the pedestrians thank them. This should give you an idea of how things work here.
I’ve been to NYC and other places where pedestrians appear to always have the right of way. There you may cross on a red light, and cars will stop to let you pass.
Here? Not a chance.
So I beg of you – before crossing, make sure you have a green light, always look to your right and to your left, and then proceed.
If there is no traffic light (and no teleportation available) everything I’ve just said still applies… times a thousand.
Also, keep in mind that if drivers see you crossing, they won’t stop. Ever.
If anything, they will honk to hurry you up.
Another typical habit Italian drivers have is to adjust the speed of the car just enough to let you start crossing, and then suddenly accelerate to get right behind you when you’re barely halfway through.
FYI: this, in case you’re wondering, is considered to be an act of courtesy.
Honking
In Milan, and, in Italy in general, car horns are used in lieu of brakes.
Drivers only brake when strictly indispensable.
Speed limits
In Milan, and more generally in Italy, what is meant by “speed limit” is the actual, physical limit that a car can reach before the engine melts down.
Yes, there are signs, here and there, indicating the hypothetical speed limit set by law on that particular road…
Number of fucks given: zero.
The problem arises when it’s you behind the wheel, and you happen to be the only one respecting those limits. You will find yourself tailgated by some very pissed-off dude driving at 50 miles per hour on a 15-mph road.
This is one of the many instances that lead to what I call the “Italian paradox”, i.e.: you are forced to NOT abide by the rules, if you want to live in peace.
Racism
Let’s be clear: the Italians are racist unbeknownst to themselves. Or better put: they are genuinely convinced they are not racist, but they are.
For your average Italian, racism is not the result of rational, lucid thinking. Of course there are also people who are consciously racist, but those are found everywhere.
What you need to know, if you are Black, Asian or Latino and you interact with my fellow countrymen, is that you will be perceived as an inferior being, at least from an economical point of view.
Little does it matter if you are an African-American attorney who makes millions of dollars a year… in their eyes you are black, hence a poor devil.
No, I correct myself: the common term is “poor thing.”
They will notice that you are dressed fine, and they will be puzzled.
And yet…
It doesn’t matter if you are a consultant surgeon of Mexican origin… in their eyes, you will always be an illegal janitor of Mexican origin.
It is a matter of “migratory imprinting” – since in this country, nowadays, immigrants are anything but rich and usually have it bad and are not (yet) fully integrated, average Italians tend to consider the whole issue from an ethnic standpoint and not from a logical one.
Getting in line
Not even a black belt in quantum geometry will ever manage to explain to you the dynamics and the transformations to which a line is subject here in Italy. Get over it, just like I did.
In theory, it should be a very simple concept – people in wait who form a tidy line in front of something. But nope, it doesn’t work like that over here… people “in line” are not necessarily before or behind you, they might very well be next to you, or a little further away from you, or seated someplace else, and so forth.
Which, once again, leads to the “Italian paradox”… if you do not want to spend the whole day waiting “in line”, you are inevitably forced to NOT abide by the rules and just wise up.
To be continued…
(translated by Valentina Besi)
Milano Expo 2015, piccola guida per stranieri.
13 marzo 2015 • By Diego CajelliAttraversare la strada.
Nella mia città, quando un’auto si ferma per far passare i pedoni sulle strisce, i pedoni ringraziano. Questo dovrebbe farti capire com’è la situazione qui.
Sono stato a New York e in altre città dove il pedone è come se avesse sempre la precedenza. Lì attraversi con il rosso, e le auto si fermano per farti passare.
Qui no.
Quindi, ti supplico, prima di attraversare la strada camminando sulle strisce, assicurati che per te sia verde, guarda comunque sia a destra che a sinistra e poi procedi.
Se non c’è il semaforo, e non c’è il teletrasporto, vale quanto detto sopra moltiplicato per mille.
In più, tieni conto che se uno in macchina ti vede attraversare non frenerà. Mai.
Userà il clacson per farti spostare più in fretta.
Altra tipicità italiana è quella di non fermarsi per farti passare, ma di adeguare la velocità del proprio veicolo in modo da sfilare alle tue spalle mentre stai ancora attraversando.
Questa è considerata una vera e propria gentilezza stradale.
Clacson.
Il clacson, a Milano e in Italia in generale, viene usato al posto dei freni.
In macchina si frena quando è proprio indispensabile.
Limiti di Velocità.
Per limite di velocità, a Milano e più in generale in Italia, si intende il limite fisico di accelerazione a cui un’automobile può arrivare prima di fondere il motore.
Ci sono dei cartelli, sparsi in giro, che indicano quello che dovrebbe essere il limite di velocità imposto dalla legge in quel determinato tratto di strada.
Di quei cartelli, non frega un cazzo a nessuno.
Il reale problema sopraggiunge quando al volante ci sei tu, e sei l’unico a rispettare i limiti di velocità. Ti ritroverai in una strada con il limite a 30Kmh, tallonato da uno incazzato che va a 80.
Questa è una delle tante situazioni che generano quello che io definisco: “Il paradosso italico”. Ovvero, sei costretto a non rispettare le regole se vuoi vivere in pace.
Razzismo.
Sarò molto chiaro: L’italiano è razzista ma non sa di esserlo. Anzi, è genuinamente convinto di non essere razzista, ma invece lo è.
Il razzismo dell’italiano medio non è frutto di un pensiero cosciente e lucido. Ovvio, ci sono anche i razzisti consapevoli di esserlo, ma quelli ci sono ovunque.
Quello che devi sapere, se sei nero, asiatico o latino, e ti interfacci con un mio connazionale è che verrai percepito come inferiore, perlomeno economicamente.
Poco importa se sei un avvocato afroamericano che porta a casa milioni di dollari all’anno, per loro sei nero, quindi sei un poveraccio.
Anzi no, scusa, la parola di uso comune è “poverino”.
Noteranno che sei vestito bene e ne rimarranno stupiti.
Non importa se sei un primario di chirurgia di origini messicane, loro ti tratteranno come si tratta un inserviente.
È una questione di “imprinting immigratorio”. Dato che, adesso, qui da noi, gli immigrati non sono certo ricchi, non se la passano bene e non si sono (ancora) integrati, l’italiano medio trasferisce il suo percepito a livello etnico.
Coda.
Nemmeno una cintura nera di geometria quantistica può spiegarti le dinamiche e le forme che può assumere una coda in Italia. Rassegnati come ho fatto io.
In teoria, una coda dovrebbe essere una cosa semplice: gente in attesa che compone una fila ordinata davanti a qualcosa. No, qui da noi non è così. La gente “in fila” può essere anche di fianco a te, un poco più in là, o seduta da un’altra parte, e così via.
Il che fa partire, nuovamente, il Paradosso Italico. Se non vuoi passare tutta la giornata a fare la fila, devi, per forza di cose, non rispettare le regole e farti furbo.
Continua…
Colazione con Lou Reed.
28 ottobre 2013 • By Diego CajelliNel settembre del 2009 ero a New York con Ladyzilla. Indomiti, avevamo preso un volo l’undici di settembre. Il prezzo era quello della tratta Milano-Bari. L’aereo era praticamente vuoto. Alloggiavamo in un ostello, ora chiuso, condividendo il bagno con dei messicani che cucinavano il Mole Plobano nella loro stanza, diffondendo aromi e profumi precolombiani in tutto il palazzo.
Le nostre valigie erano più o meno vuote. Dentro c’era soltanto l’essenziale per vestirsi un paio di giorni. Il resto, lo avremmo comprato lì. Approfittando del cambio favorevole e perché no, di quel tipo di negozi che trovi soltanto lì.
Da Milano, mi ero portato una maglietta dei Velvet Undergound comprata alla Fiera di Senigallia. Non ufficiale, ma molto carina. Un colore per me inconsueto: viola, con su la cover bananosa di Warhol.
Quel mattino ci alziamo nella nostra stanzetta all’ostello. Un po’ storti per via del fuso e della notte brava. Aspettiamo il nostro turno per il bagno. Il programma di oggi è serrato.
Esplorazione cittadina, con foto varie, giri turistici organizzati in base alle location dei nostri film e delle nostre serie preferite. Cazzate? Sì. Ma sono le nostre cazzate e ne andiamo fieri.
Forse per via del colore, non mi sento a mio agio con i colori, non metto la maglietta dei Velvet. Opto per una t-shirt nera, scolorita.
Il papà di Betty Suarez finisce di farsi la barba, il bagno è nostro. Ci laviamo, ci vestiamo, usciamo.
Prima tappa: il 66 Perry Street e un giro nei dintorni.
Per non perdere tempo, acchiappo un caffè alla macchinetta dell’ostello. Un’esperienza quasi mistica, un caffè tanto orrendo che fa il giro e diventa buonissimo.
Arriviamo sul posto, guardiamo la casa di Carrie (e di mille altre serie e film, dove a questo punto tutti quelli che vivono nella fiction niùyorkana vivono nel palazzo di Carrie) e poi arriva il momento di trovare un posto dove fare una colazione vera. Fame. Tanta.
Gira che ti gira arriviamo sulla Hudson Street. C’è un locale, una catena, un bistrò francese in franchising.
Ladyzilla mi tira per la manica è mi dice:
- Guarda chi c’è seduto a quel tavolino!
Sposto lo sguardo.
Seduto a far colazione c’è Lou Reed.
Era seduto con un tipo e una tipa, parlavano tra loro di fronte alla colazione dei campioni.
Lui indossava dei jeans neri, praticamente dipinti sulle gambe, una maglietta color melanzana, il chiodo e un bel paio di ciabatte. Le stesse ciabatte che i nonni si comprano alla LIDL.
Ma fa niente. A Lou Reed gli stanno bene.
Il mio primo pensiero è: porcadiquellazozza! potevo mettere la maglietta dei Velvet Underground! Portarla fino a New York, guardarla con indecisione questa mattina, erano tutti dei segni del destino che ho ignorato!
Ladyzilla decide che quella catena di pane e cioccolato francese è il posto giusto dove fare colazione. Assolutamente.
Ci sediamo al tavolo accanto. Gomito a gomito con Lou Reed.
Ogni tanto sbircio. Non sono così impavido/faccia-da-chiulo per attaccare bottone o per fare una foto con lui. Rispetto la sua privacy.
Anche perchè, se fossi Lou Reed, se stessi facendo colazione in ciabatte con due amici, non gradirei molto che due italiani mi rompessero i coglioni. Non prima del terzo caffè perlomeno.
Però, cavoli. Perchè non ho addosso quella dannata maglietta! Poteva essere un buon modo per rompere il ghiaccio e fare quattro chiacchiere.
Parlano di affari. È una colazione di lavoro. Con Lou Reed in chiodo e ciabatte. Mi piacerebbe dirti che aveva anche gli occhiali da sole. Ma no. Aveva quelli da vista, e leggeva dei fogli tenendoli un po’ lontani dagli occhi.
Lo guardo, tanto lui non fa caso a me.
Il suo viso è una ragnatela di rughe e di storie. Ha il volto segnato, come una mappa che conduce a due occhi profondi, che chissà che cosa ha visto con quegli occhi lì.
Poi si alza. Le ginocchia sono due bozzi nei jeans attillati. Sciabatta verso la cassa.
Paga lui.
Mi aspetto che andandosene fischietti: Walk On The Wild Side.
No, forse lo farà più tardi, mentre cammina sulla Hudson Street, in questo mattino newyorkese che mi ha regalato una storia da raccontare.