Prima Lucca e poi Istanbul. Quando sono tornato a casa ho trovato ad aspettarmi ottomila cose da fare. Ecco perché il mio resoconto istanbulese arriva così tardi.
Come sempre in ordine casuale, ecco i miei appunti di viaggio e qualcuna delle foto che ho scattato da quelle parti.
Arrivo.
All’aeroporto ci attende Emre. Il responsabile dell’ufficio stampa della casa editrice che ci ha invitato. Parla italiano molto bene. Sarà la nostra indispensabile guida, capo gita, cicerone, confidente, per i giorni che seguiranno.
Arriviamo e un cameraman riprende il nostro arrivo e inizia a seguirci passo dopo passo.
Rimarrà con noi tutti i giorni, dalla mattina alla sera.
La mia autostima arriva ad altezze esagerate. E ci rimane anche quando scopro che le telecamere sono lì per Galieno Ferri.
Traffico 1.
Istanbul ha un’estensione di 100 km, e qualcosa come 20 milioni di abitanti. Per arrivarci da Milano in aereo ci vuole meno tempo che per arrivare in pulmino dall’aeroporto all’albergo.
Compresa una sosta agli studi televisivi, dove Ferri è ospite in un programma in prima serata, ci mettiamo qualcosa come tre ore per arrivare in albergo.
Il traffico sarà una costante. Però, lo dico subito, ti ci abitui subito e non ho vissuto la cosa in modo stressante.
Kadıköy.
Quartiere sulla costa anatolica, l’albergo era lì.
Ci sono il mare, le navi, il porto, i gabbiani e un invasione di gatti.
Un vialone con un sacco di negozi, locali, baracchini, gente, traffico, bella energia. Una serie di viuzze che si inerpicano in salita.
Vorrei esplorarlo con più calma.
Kokorec.
Di fronte ad un chiosco che vende cose da mangiare non posso resistere. Quindi, porto avanti la mia missione di indomito mangione affrontando un panino con interiora di agnello arrostite.
Buonissimo. A questo giro ho una compagna gastronomica: Laura Scarpa. Che come me ha la missione di assaggiare tutto quello che non ha mai assaggiato.
Qui sotto una foto di Moreno Burattini che documenta l’evento.
Starbucks.
La Turchia è un paese civile. Ovvero, a differenza del paesotto anni ’50 in cui viviamo noi, ti offre possibilità di scelta. Se vuoi, puoi andare a berti un caffè da Starbucks.
Anzi dirò di più. Sono rimasto stupido dalla spettacolare convivenza tra elementi locali ed elementi internazionali.
Io non sono un fanatico delle catene, e non auspico l’americanizzazione del mondo. Però, cazzo, se un mattino mi alzo e ho voglia di andare a bere un caffè da Starbucks, devo essere libero di poterlo fare.
Qui non posso.
Gran Bazar.
Praticamente una città nella città, al coperto, con un milione di negozi e negozietti.
Penso che volendo, uno possa rimanere lì dentro anche una settimana.
E’ turistico fino a un certo punto, ci sono anche tantissimi locali che sono lì a fare le loro spese.
Se ho capito bene va ad aree.
Non ho capito invece se i prezzi si trattano oppure no. Dato che non sono assolutamente capace di trattare non ho approfondito la questione.
Non è uno di quei posti dove i negozianti ti acchiappano e ti tirano dentro. Nessuno invade la tua privacy. Molti parlano italiano.
La formula è: Ciao amico, italiano? Berlusconi! (Segue gesto internazionale con la mano tipo che suona il clacson ma che indica un altro tipo di movimento. Quello pelvico)
Gli aneddoti di Gianfranco Manfredi 1
A cena, Burchielli, Schiavone e il sottoscritto si mettono a parlare di Bombolo, Jimmy il Fenomeno, Edwige Fenech e dei vari capolavori della commedia italiana anni ’80. Tiriamo in mezzo Gianfranco Manfredi. Per Burchielli “Viva la Foca” è una chicca da cineteca. Al che Manfredi ci racconta che:
- In quel periodo i produttori chiamavano i direttori dei vari cinema, prima di girare il film, per farsi coprire parte dei costi di produzione. Soprattutto sale di provincia. E quelli ci investivano dei gran soldi. Io ero presente quando il produttore di Viva La Foca ha fatto il giro di telefonate… Era al telefono e diceva: A Peppì… De questo film te dico solo il titolo… Te dico solo ‘na cosa: Viva la Focaaaaaah!
(Continua, non so quando, ma continua!)